
Morde un hamburger a Tokio e scatena carestia in Cile!
di Massimiliano DS Ti piace questa Storia? Dalle un cuore!Lo so, sembra il classico titolo “ClickBait”… Ma ci torniamo alla fine!!
Entro 50 anni anche noi delle aree sovra-sviluppate del pianeta non saremo più in grado di scegliere cosa mangiare o che cibi acquistare. E’ l’allarme lanciato dal World Food Programme e dall’ONU, e già entro il 2050 dovremo ridurre le proteine di origine animale rimpiazzandole con quelle provenienti da fonti vegetali. Di fatto, nel 2019, la commissione EAT- Lancet ha proposto una dieta “flexitariana”, ideale per la salute umana e per quella del pianeta, in cui occorrerebbe raddoppiare i consumi di frutta e verdura, legumi e noci e dimezzare quelli di zuccheri e carni rosse. Ma perché accadrà questo?
I fattori sono molteplici. In primo luogo perché da molti anni, più che altro, “non scegliamo” consapevolmente cosa acquistare, accettando come normale che il cibo, prima di arrivare sulle nostre tavole, si giri il mondo dentro plastica, cartoni, imballaggi, producendo grandi quantità di co2 o perché gli allevamenti intensivi, la deforestazione e l’agricoltura chimica la fanno da padrone; e più il clima subisce il colpo e cambia, più questi cambiamenti trasformeranno i nostri territori, le loro morfologie e gli scenari, e di conseguenza le coltivazioni e gli allevamenti che oggi conosciamo lasceranno il posto ad altre colture, e così cambierà anche il cibo a nostra disposizione. A quel punto non ci sarà più dato “scegliere”, potremo solo acquistare ciò che troveremo “a scaffale”, da qualsiasi parte del mondo arrivi o in qualsiasi modo sia stato prodotto! Questo aspetto sembra poter essere arginato “scegliendo”, finché ancora possiamo, Produttori locali, cercando così di scoraggiare quel mercato che si è rivelato poco vantaggioso per tutti, sotto molteplici aspetti.
Se sul piano del Clima quindi sembrerebbe che difendere questo “lusso” della possibilità di scelta del cibo sia attuabile preferendo il più possibile filiere corte e prodotti locali nonché stagionali, quando ancora parliamo di pomodori o pane o albicocche, non è altrettanto semplice quando entrano in gioco cibi non territoriali né nazionali: caffè, cioccolato, spezie, liquori, certi cereali, frutta esotica, alcuni pesci e alcune carni e crostacei si sono talmente radicati nelle nostre abitudini e nelle nostre liste della spesa che è praticamente impossibile non importarli o rimpiazzarli.
E qui si arriva ad un altro punto fortemente connesso ai primi due, ovvero che su un panel ampio di nazioni, si è visto che mediamente il 64% del cibo di ogni Stato proviene dall’estero; l’Italia in questa classifica si attesta intorno ad un 52% di importazione! Ma il problema non è solo che il miele cinese (Che spesso non ha neanche mai visto un’ape!) è più economico di quello italiano e quindi lo si importa per avere maggiori margini, ma più che altro il punto è che il fabbisogno interno è superiore alla produzione interna! In buona sostanza consumiamo più di quello che produciamo! E questo vale per olio d’oliva, per la farina, il riso etc…
Ci sono quindi tre scenari che si scontrano fortemente, e i cui nodi sono arrivati al pettine: 1) i cambiamenti climatici legati allo sfruttamento dei territori e al commercio globale, 2) le richieste interne superiori alla produzione interna e 3) la necessità di importare alcuni prodotti esotici inesistenti in Patria. A tutto ciò si aggiunge un quarto fattore che inciderà non poco, ovvero la crescita demografica: entro il 2050 saremo quasi 10 miliardi e le popolazioni delle nuove potenze economiche come India o Cina, potenze anche demografiche, puntano allo stesso “lusso di scelta” che il Mondo Occidentale ha sperimentato e a cui non sembra intenzionato a rinunciare.
Lo scenario è complesso, le soluzioni istituzionali, visti i tanti interessi in ballo, tardano e quelle paventate risulterebbero troppo onerose in termini di rinunce se applicate immediatamente alla qualità della vita che oggi conosciamo… Una cosa è evidente: più il mondo è interconnesso, come i dati sopra dimostrano, più le soluzioni devono essere anch’esse interconnesse e relazionali, e non possono essere risolte con “ricette” di singoli “blocchi” sovranazionali che fanno proclami nei propri interessi ancora a discapito di altri, o di singole Nazioni che si chiudono nel protezionismo, né tanto meno facendo gravare l’onere della responsabilità sulle scelte dei singoli consumatori.
Ognuno acquista non solo secondo propria coscienza, ma spesso e soprattutto anche secondo la propria disponibilità economica, ed è paradossale che per quanto un consumatore possa impegnarsi per scegliere una spesa “etica” o “biologica” o “territoriale” o “sostenibile” o “anti-spreco” o “salutista” o “green” che si voglia, si trovi poi a veder gravare maggiormente, e per intero su se stesso, i sovra-prezzi di tali prodotti, che sono appunto in genere più cari, quando poi queste scelte portano oggettivamente un maggior benessere collettivo.
Finché la ricerca del “bene comune alimentare” sarà uno scotto lasciato a gravare sul singolo individuo, senza leve economiche incentivanti, e a fronte di tassazioni estremamente basse per tutta quell’industria e sistemi economici che, di contro, stanno portando sempre più rapidamente il sistema al collasso, è chiaro che le soluzioni non saranno né rapide né indolore!
Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo; probabilmente allo stesso modo, oggi, chi morde un hamburger a Tokio è in grado di provocare una carestia in Cile!
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